Tommaso Gioia: Ai limiti della Costituzione

Periti in tribunale con la quinta elementare - come si può?

Nel corso della mia formazione universitaria e nel più generico corso della mia vita, la malpractice medica è diventata per me un’ingiustizia intollerabile, e in quanto studente della facoltà di Giurisprudenza, ho scelto di elaborare una tesi di ricerca in medicina legale, focalizzata sulla branca psichiatrica, per affiancare il cammino della pseudo scienza psichiatrica ai principi giurisprudenziali che accompagnano la nostra società.

Inizialmente ho riportato l’evoluzione storica della psichiatria, perché il primo e importante presupposto da cui partire era per me quello di ripercorrere gli atteggiamenti e gli approcci assunti dalla pratica psichiatrica nei confronti della cosiddetta malattia mentale, per meglio comprendere su quali basi muove  il loro modo di agire.

Era doveroso, quindi, partire dalla lontana istituzione dell’Ospedale Reale di Bethlem in Inghilterra, fino ad arrivare alle più recenti pratiche farmaceutiche, passando dalle vecchie lobotomie, TEC, ed affrontando il tema degli abusi della psichiatria in delicati momenti storici, quali la seconda guerra mondiale, la repressione sovietica, e il razzismo verso i neri. Dopo aver passeggiato in questo bizzarro percorso storico, apprendendo le incredibili e stranamente accreditate teorie di studiosi come Benjamin Rush, J.F. Skinner, Egas Moniz e di Sigmund Freud, ho cercato di affiancare tutto questo ai più basilari principi giurisprudenziali, per meglio comprendere come possano queste strane pratiche mediche trovare facile applicazione nella nostra società. Ho ripercorso la storia della psichiatria a livello mondiale, un processo indispensabile, dato che l’alma mater della psichiatria risiede  negli Stati Uniti d’America.

Nel campo giuridico  ho ristretto la ricerca alla nostra penisola, partendo quindi dalla cosiddetta Legge Giolitti del 1904 che portava all’istituzione degli ospedali psichiatrici, intesi non come centri di recupero per le persone con difficoltà psicologiche, ma come istituti attraverso i quali assicurare la sicurezza della società. Con questa legge i nomi degli internati venivano iscritti nel casellario giudiziario, e le persone che non venivano dimesse entro 29 giorni venivano internate per sempre attraverso un decreto del tribunale. In queste strutture il “medico” era autorizzato ad agire  liberamente su persone che non avevano più alcun potere ed alcun diritto.  Con la legge 431/ 1968  c’è stato un piccolissimo passo avanti, dato che veniva abrogata la registrazione nel casellario giudiziario degli internati nelle strutture di ricovero psichiatrico.

La legge che, infine, ha più fatto parlare di sé nel campo della psichiatria italiana è la ‘legge Basaglia’ (180/1978), basata sulle idee e opere dello psichiatra Franco Basaglia, che portò alla soppressione dei manicomi ed all’introduzione del trattamento sanitario obbligatorio: un dispositivo che, sostituiva il giolittiano ‘ricovero coatto’, introducendo alcuni principi base a difesa dei diritti delle persone.

Sebbene sia stata una legge ritenuta innovativa nella risoluzione dell’ormai ingombrante problema dei manicomi, leggendo l’intera legge ci si rende conto di quanto nella vita pratica, la stessa non venga rispettata.

Mi limito a riportarne il 2° comma dell’art. 1:

Nei casi di cui alla presente legge e in quelli espressamente previsti da leggi dello Stato possono essere disposti dall’autorità sanitaria accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori nel rispetto della dignità della persona e nei diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione, compresi per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura

Ben sappiamo come quanto sottolineato sopra venga beffato in ogni modo nella reale pratica del TSO. 

Giova ricordare che il 2° comma dell’Art. 32 della Costituzione recita che:

Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizioni di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana .

Bisogna analizzare quali siano i limiti imposti dal rispetto della persona umana, e quindi considerare alcuni articoli della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, ovviamente equiparando il tutto alla pratica psichiatrica.

L’art. 3 della predetta dichiarazione recita che:

Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona.

Quindi laddove la legge Basaglia consente un trattamento sanitario obbligatorio basato sulla soggettiva interpretazione del medico, raramente dovuto a situazioni di concreta pericolosità sociale, dal quale consegue quindi una ingiustificata restrizione della libertà, è da considerarsi incostituzionale.

L’art 5 della dichiarazione dei diritti dell’uomo recita che:

Nessun individuo può essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizioni crudeli, inumane e degradanti.

Attraverso il TSO, l’istituto che prende in cura il paziente, può disporre su di esso qualsiasi tipo di trattamento. Quindi se il paziente viene sottoposto a trattamento elettro-convulsivo, tale pratica non può che essere equiparata ad un trattamento crudele inumano e degradante, atteso che non vi sono prove scientifiche a sostegno di eventuali benefici di tale pratica e che, anzi, portano alla lesione della sua area cerebrale.

Bisogna comunque tenere sempre a mente durante questa esplorazione giuridica che non vi è alcun credibile criterio diagnostico di malattia mentale. Come ci ha insegnato Thomas Szasz, il diabete è una malattia tangibile, che ha come inconfutabile mezzo di diagnosi l’analisi del sangue, la malattia mentale, invece, è catalogata nel DSM senza criteri diagnostici credibili, se non attraverso la votazione delle pseudo - patologie per alzata di mano durante i  convegni dell’ American Psychiatric Association.

Quasi superfluo, poi, sottolineare che una patologia, non può essere scelta per alzata di mano, conseguendone quindi che la stessa sia lasciata ad una libera e soggettiva valutazione. Una patologia deve essere considerata tale, alla stregua di inconfutabili sistemi diagnostici che ne consentano l’accertamento al di là di ogni ragionevole dubbio.

Da qui è conseguito il mio interesse, per la dottrina della Evidence-based-medicine (medicina basata sulle evidenze). Una corrente nata nel 1992 e definita dal suo ideatore, il medico canadese D. Sackett come “ il processo della ricerca, della valutazione e dell’uso sistematico dei risultati della ricerca contemporanea come base per le decisioni cliniche ”. Si tratta, appunto, di lasciare alla medicina, attraverso un rigido sistema di catalogazione dei dati, sempre meno spazio alla soggettività.

Nel prosieguo dell’analisi giuridica ho riscontrato come molti altri diritti vengano lesi, e come alcune pronunce della Cassazione, a seguito dell’astrattezza della pratica psichiatrica, siano suscettibili di non univoche interpretazioni. In tema di onere della prova, ad esempio, riporto una importante pronuncia della Suprema Corte:

... in ogni caso, il paziente che alleghi di aver patito un danno alla salute in conseguenza dell’attività professionale del medico, ovvero di non aver conseguito alcun miglioramento delle proprie condizioni di salute nonostante l’intervento del medico, deve provare unicamente l’esistenza del rapporto col sanitario e l’insuccesso dell’intervento , e ciò anche quando l’intervento sia stato di speciale difficoltà, in quanto l’esonero della responsabilità di cui all’art. 2236 c.c. non incide sui criteri di riparto dell’onere della prova.

Costituisce, invece, onere del medico, per evitare la condanna in sede risarcitoria, provare che l’insuccesso dell’intervento è dipeso da fattori indipendenti dalla propria volontà e tale prova va fornita dimostrando di aver osservato nell’esecuzione della prestazione sanitaria la diligenza normalmente esigibile da un medico in possesso del medesimo grado di specializzazione . (Cass. 8.10.2008 n. 24791)

Si presenta facile, quindi, per un paziente psichiatrico, in base alla prima parte di questa pronuncia, provare l’insuccesso dell’intervento (facile anche alla stregua dell’art. 2236 c.c. che recita "Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o colpa grave" ), dato che dal momento in cui si affida ai suoi trattamenti versa in uno stato di sopravvivenza. Diviene altrettanto agevole, d’altro canto per gli psichiatri, in base alla seconda parte della stessa pronuncia, provare che “l’insuccesso dell’intervento è dipeso da fattori indipendenti dalla propria volontà” .

Questo perché? Perché essendo la psichiatria ambigua ed inesatta, attraverso le loro facili catalogazioni di malattia mentale, diviene quasi un gioco provare che l’insuccesso dell’intervento è dipeso dalla “grave malattia” del paziente. Come può non esserci colpa grave da parte di un medico che ha sottoposto il proprio paziente ad un elettroshock, quando ben sa che non sta facendo altro che procurare una grave lesione dell’area cerebrale al proprio paziente (unico dato postumo biologicamente provabile).

In altri campi medici, come ad esempio in chirurgia, ben dimostrabile e poco astratto è da parte del medico l’insuccesso dell’intervento dipeso da fattori indipendenti dalla propria volontà. Nel caso della psichiatria, invece è tutto astratto e ingannevole.

Con riguardo all’abuso della prescrizione farmacologica, nell’ottobre del 2011 negli Stati Uniti d’America il giudice Robert Heinrich, ha sentenziato che la violenza di un sedicenne che aveva pugnalato a morte il suo amico, era conseguenza diretta dell’assunzione  del farmaco Prozac, e che senza l’assunzione di esso, il ragazzo non avrebbe commesso l’omicidio. In questa tragica ipotesi conforta, quantomeno, il fatto che il giudice abbia ritenuto conseguenza diretta dell’omicidio, la precedente assunzione di farmaci psicotropi.

Alla fine del mio lavoro, dopo aver trattato alcuni concetti dei movimenti antipsichiatria e del rapporto tra l’American Psychiatric Association e le industrie farmaceutiche, mi sono reso conto che non c’è ragionevole chiarezza giuridica nel mondo psichiatrico. La sostanza è che i signori psichiatri, per ora, restano liberi di agire come vogliono, godendo della cieca fiducia delle stesse istituzioni che dovrebbero proteggerci.

L’unica dimostrazione concreta che ci è stata data dalla psichiatria è che la mente umana è modificabile. Volendo essere obiettivi, se un antidepressivo porta a ideazioni suicide, per quanto possa essere inaccettabile, ha in qualche modo modificato il consuetudinario andamento della psiche del soggetto sottoposto a tale trattamento. Quello che conta, però, è che ci dimostrino con esami scientifici tangibili, che l’assunzione dei farmaci ha come conseguenza diretta la cura di un comprovato malessere, altrimenti, alla luce dei pericolosissimi effetti collaterali, sarebbe meglio adeguarsi agli standard delle vere correnti mediche, che si astengono dall’agire, in maniera incondizionata per tentativi.

Ci si chieda perché non esistono movimenti anticardiologia o antiginecologia, ed invece esistono movimenti antipsichiatria, peraltro supportati dagli stessi psichiatri, uno su tutti il Prof. Thomas Szasz.

Staccandomi, poi, da una tecnica valutazione giuridica, dopo aver affrontato questo lungo percorso, riesco solo a pensare che la malattia mentale esiste come concetto individuale non catalogabile in manuali diagnostici. La concezione della vita è un concetto troppo soggettivo affinchè un DSM di turno possa dire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Il termine pazzia viene usato nel quotidiano dalla gente senza che prima consulti il dsm per ricercarne la (discutibilissima) scientificità, nel caso concreto.

Vorrei chiudere con un episodio avvenuto mentre effettuavo un’intervista ai fini della mia ricerca. Un episodio che ha dato la risposta giusta a ogni mia domanda.

Intervistavo uno psichiatra, questi, mentre millantava tutte le loro assurde teorie (che io per spirito di professionalità cercavo di ascoltare con distacco emotivo), nel corso dell’intervista con fare disteso, mi dice: “…anche io mi sono sentito in diversi contesti emotivi al pari dei miei pazienti” , a questo punto gli chiedo: “quindi anche lei si è sottoposto a elettroshock ed ha preso psicofarmaci?” , a questa mia domanda è conseguita una espressione seria ed un laconico: “No, io no!” .

Dott. Tommaso Gioia

Un sentito ringraziamento va al CCDU a livello nazionale ed al CCHR a livello internazionale, perché, soprattutto con riguardo alla parte storica, le loro preziose ricerche hanno facilitato parecchio il mio lavoro.

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