Tradire con le etichette: i deboli di mente, l’ADHD e i bambini degli indiani d’America
Nel Giorno della Memoria, uno studio pubblicato da una rivista di Indiani d’America rivela un inquietante filo conduttore, che collega lo sterminio dei nativi americani, l’Olocausto e l’ADHD
Il diagnosticare bambini “nativi” (termine con cui in America s’identificano i discendenti dei pellerossa) con ADHD (Disturbo da Deficit d’Attenzione e Iperattività) e curarli con stimolanti non fa nulla per migliorare il loro livello educativo e intellettuale. Peggio, li predispone al fallimento. Una tale idea potrebbe far inorridire gli addetti ai lavori, così convinti di potere aiutare i cosiddetti bambini ADHD, ma si tratta della stessa ideologia con cui i bambini nativi sono stati sabotati per generazioni.
Molto prima che si coniasse il termine ‘ADHD’, i bambini nativi che frequentavano la scuola venivano etichettati “deboli di mente” (feeble-minded) e spediti con forza verso percorsi di “educazione speciale”, il cui intento era di eliminare l’influenza dei loro genitori e della loro comunità “primitiva”, e ottenere il meglio possibile dal loro (presumibilmente inferiore) intelletto. Alcuni influenti scienziati euro-americani, convinti dell’inferiorità dei genitori nativi, iniziarono presto ad applicare questo pregiudizio ai loro figli, che fossero ribelli, traumatizzati, disattenti o semplicemente vivaci.
Il significato di “debolezza mentale” fu chiarito nel 1910 dall’Associazione Americana per lo Studio dei Deboli di Mente (AASF): “generalmente deve includere tutti i gradi di difetto mentale dovuti a sviluppo mentale arrestato o imperfetto.” La descrizione si spingeva fino a definire le varie sottocategorie: idioti, imbecilli e deficienti, da identificare tramite una nuova tecnologia - il test del QI - che consentisse di ricavare la cosiddetta “età mentale” del soggetto.
La AASF pubblicò diversi articoli pseudoscientifici sulla debolezza mentale sul suo “Journal of Psycho-Asthenics”, fino a che questo non chiuse i battenti nel 1921. Gli articoli comprendevano studi su individui descritti come “ritardati mentali” e altri studi su individui di razza presumibilmente inferiore, delinquenti e/o di bassa morale. Nel 1904, per esempio, il Dr. Martin Barr descriveva ai suoi lettori un sistema di difetti mentali, sviluppato dall’influente medico inglese J. Langton Down (scopritore della ‘Sindrome di Down’), basato su una “classificazione fisionomica ed etnologica” secondo la quale, nell’indiano americano “la caratterizzazione morale e intellettuale esistono a malapena”.
Molti autori psicoastenisti erano seguaci della falsa scienza eugenetica, inventata dall’aristocratico britannico Sir Francis Galton. Costui riteneva che i nativi americani possedessero solo “il minimo di qualità affettive e sociali compatibili con la continuazione della loro razza”. Il suo pensiero contribuì ad avviare il movimento eugenetico americano, che prese di mira gli indigeni chiedendone l’eliminazione. Questi prominenti luminari pianificarono e promossero una campagna pubblica per eliminare le “razze inferiori”, scoraggiando la loro riproduzione e sterilizzando le persone “intellettualmente inferiori” contro la loro volontà.
Lo psicologo americano Lewis Terman face tradurre, e diffuse negli USA, un sistema ideato da due psicologi francesi per determinare la cosiddetta “età mentale” - un concetto molto usato in questi studi di psicologia razziale. Nel 1916 Terman scrisse del “basso livello d’intelligenza riscontrabile con straordinaria frequenza tra indiani, messicani e negri” notando come la loro stupidità sembrerebbe originare dalla loro razza o, perlomeno, dai ceppi famigliari da cui discendono. Terman raccomandò:
“I bambini di questo gruppo dovrebbero essere segregati in classi speciali, e dovrebbero ricevere un’educazione di tipo pratico e concreto. Non possono concepire il pensiero astratto, ma possono essere trasformati in lavoratori efficienti … non è possibile, al momento, convincere la società che (a questi individui) non dovrebbe essere consentito riprodursi.”
Gli psicoastenisti non si limitarono a descrivere l’inferiorità mentale di queste razze, ma si spinsero fino a delinearne i tratti caratteristici: pigrizia, indole ribelle e mancanza d’iniziativa. Secondo Terman, la delinquenza era un segno di difetto morale, ma “in futuro i test di QI saranno usati per mettere sotto sorveglianza e protezione sociale decine di migliaia di persone dalla mente difettosa.” I bambini indiani che parlavano la loro lingua, rifiutavano di lavorare nei campi, fumavano tabacco, scappavano, incendiavano le scuole o cercavano d’impiccare il preside - incidenti scoperti dalla ricercatrice Brenda J. Child - erano considerati “mentalmente difettosi”. Uno dei metodi usati per insegnare loro obbedienza, indole e autodisciplina furono i programmi di “uscita”, che spinsero questi ragazzi a lavorare sotto contratto al servizio dei bianchi, presso le loro case e fattorie.
In accordo con le principali correnti di pensiero condivise da almeno sei presidenti dell’Associazione Psicologica Americana, Terman propose un movimento eugenetico nazionale col fine di “limitare la riproduzione dei deboli di mente in modo da ridurre enormemente crimine, povertà e inefficienza industriale” ma anche ridurre l’immoralità, poiché questa “dipende da due cose: a) l’abilità di prevedere e valutare le conseguenze delle proprie azioni per sé e per gli altri e b) la volontà e capacità di autocontrollo”.
Nella prima metà del XX secolo, gli psicologi razziali pubblicarono i loro lavori pseudoscientifici, con l’intento di dimostrare l’inferiorità razziale dei bambini nativi, e promuovere politiche di “controllo della popolazione”. Il test di Terman è stato usato fino alla metà degli anni ‘60 per determinare i requisiti per la sterilizzazione obbligatoria dei deboli di mente in molti stati USA, e il numero di bambini e adulti che ne furono colpiti rimane sconosciuto. Queste leggi furono studiate e ammirate da psichiatri tedeschi in visita negli USA, incaricati di definire la politica nazista di sterminio razziale.
Con la scoperta del ruolo avuto nell’Olocausto, l’eugenetica fu sottoposta a pesanti critiche dopo la Seconda Guerra Mondiale; eppure il movimento eugenetico riuscì a riciclarsi, con un linguaggio rivisto (più soffice, e privo di riferimenti razziali) che ora ha come bersaglio i poveri. Così, nel 1949 Paul Lemkau, primario del Dipartimento di Igiene Mentale alla John Hopkins University, scriveva nel suo diffusissimo libro “Igiene Mentale nella Sanità Pubblica”:
“Con ogni probabilità si troveranno bambini marcatamente deboli di mente nel più basso strato socioeconomico … ci saranno salari bassi, alloggi inadeguati, scarsa educazione, alta mortalità e morbilità infantile, e tassi di malattie veneree e tubercolosi superiori alla media…”
Negli anni ‘60 fu all’opera il cosiddetto Servizio Sanitario per gli Indiani, in cui molti medici iniziarono a “darsi da fare in maniera efficace per assumersi le loro responsabilità” sterilizzando migliaia di donne native senza il loro consenso (spesso senza nemmeno dirglielo). In questo modo, lo stereotipo dell’indiano scemo riuscì a ridurre il tasso di natalità di bambini nativi da 3,3 figli per donna negli anni ’70, a 1,3 negli anni ‘80. Contemporaneamente, molti bambini nativi si videro negare il loro diritto allo studio (85% lasciavano la scuola prima di diplomarsi): nel 1969 una Commissione del Senato presieduta da Edward Kennedy rivelò che 250.000 insegnanti delle scuole primarie e secondarie preferivano non avere alunni nativi a causa della loro “intelligenza inferiore alla media.”
Tutto questo succedeva prima dell’invenzione dell’ADHD, in un periodo in cui l’etichetta usata per i bambini nativi era “Disfunzione Cerebrale Minima” (MBD). I ricercatori psichiatrici continuarono a usare questa etichetta fin verso la metà degli anni ‘70, fornendo questionari agli insegnanti per misurare il comportamento dei bambini - proprio come si fa oggi per l’ADHD - diffondendo l’idea di un legame tra malfunzionamento del cervello e disattenzione, iperattività e delinquenza. Una nuova etichetta fu coniata col DSM II (Manuale Diagnostico e Statistico, versione II - il testo sacro della psichiatria, che elenca centinaia di cosiddetti disturbi mentali): il Disturbo Ipercinetico dell’Infanzia. La vecchia etichetta, tuttavia, rimase in uso per tutti gli anni ‘70, e lo psicologo educazionale Karl Frankenstein ( nome vero!) lo usò nel suo testo Varietà di Delinquenza Adolescenziale:
“La debolezza mentale si rivela come rigidità e facilità alla distrazione, nelle tendenze che persistono così come nella mancanza di perseveranza. Fattori non cognitivi, come una certa inabilità nel resistere alle interferenze delle emozioni o impulsi con processi di pensiero, sono intrinseci…”
Come molti avranno notato, molte delle caratteristiche con cui il Dr Frankenstein descrive la debolezza mentale, sono oggi usate per descrivere l’ADHD. Non si tratta, però, dell’unica somiglianza: questi due disturbi mentali condividono anche l’assoluta mancanza di fondamento scientifico.
Simili nella descrizione
I fautori dell’ADHD amano ancora ricordare la “scoperta” di questo disturbo, citando il pediatra inglese George Still che, nel 1902, suggerì come “continui problemi di attenzione” possano contribuire a un “difetto morale” nei bambini, portandoli a comportarsi in maniera aggressiva e provocatoria. Non sembrano però altrettanto desiderosi di collegare i puntini, e rivelare il legame tra l’odierno ADHD con la debolezza mentale. Il Disturbo da Deficit d’Attenzione (ADD) venne definito nel 1980 per mezzo di vari “sintomi”, raccolti dall’élite psichiatrica USA (l’Associazione Psichiatrica Americana) per convincere il pubblico dell’esistenza di una nuova malattia mentale. Per essere più precisi, l’ADD rappresentava un tentativo di unificare l’insieme variegato di etichette con cui si descriveva il comportamento molesto dei bambini, in una singola diagnosi da includere nel Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali - il controverso DSM. In aggiunta a disattenzione e distrazione, i bambini ADD venivano descritti come affetti da sintomi “associati” di MBD (Disfunzione Cerebrale Minima - si veda sopra) e di iperattività quali “ostinazione, caparbietà, bullismo, lunaticità, bassa tolleranza per la frustrazione, scoppi di rabbia, bassa autostima e mancanza di risposta alla disciplina”. Sette anni dopo, con la IV edizione del DSM, ADD divenne ADHD.
Simili nella mancanza di fondamento scientifico
Lo psichiatra americano Allen Frances, Presidente del Comitato Editoriale che pubblicò il DSM IV, ne è diventato oggi uno dei più convinti oppositori, denunciando che provocò " un'inflazione delle diagnosi di ADHD che sta ulteriormente incrementando il già elevato consumo di farmaci pericolosi da parte dei bambini ". Nonostante ciò, l’Associazione Psichiatrica Americana non fece nessun passo indietro ma, anzi, pubblicò nel 2013 il DSM 5 rincarando la dose: l’ADHD viene separato dai “disturbi del comportamento già identificati nell’infanzia” e ricollocato in un nuovo capitolo - quello dei “disturbi neurocomportamentali”. I sostenitori dell’ADHD come disturbo neurocomportamentale sono tanto certi della loro dubbia scienza cerebrale quanto gli psicologi psico-astenici lo erano delle loro bislacche teorie genetico-razziali. Il test d’intelligenza dei vecchi tempi è stato sostituito da test dal nome altisonante - TAC, Risonanza Magnetica Funzionale e PET.
Media e riviste mediche, oggi ci sommergono di queste colorate immagini di cervelli, ma quasi mai si preoccupano di ricordarci che non esiste alcun modo di localizzare o diagnosticare ADHD in un singolo cervello. Una revisione accurata di questi “studi” di neuroimaging, pubblicata dal Journal of the American Academy of Child and Adolescent Psychiatry, ha ammutolito gli esperti:
“… l’ampia sovrapposizione di valori tra il campione clinico e la popolazione di confronto, al momento preclude ogni possibilità di diagnosi … Non esiste alcuna ‘lesione’ (cerebrale) comune a tutti, o perlomeno a molti, bambini affetti dai più studiati disturbi di … deficit d’attenzione e iperattività…”
Allen Frances non sembra essere l’unico ‘pentito’.
Il neuroscienziato Jaak Panskepp, uno dei più fervidi sostenitori dell’origine genetica dell’ADHD, oggi ammette che “per la maggior parte … ADHD riflette un malanno più culturale che biologico.”
Lo psicologo Jay Joseph, autore di “L’Illusione Genetica” e “Il Gene Mancante” conclude: “L’evidenza scientifica suggerisce che non esista alcun gene responsabile dei maggiori disturbi psichiatrici."
John Horgan, dalle colonne di Scientific American, ha recentemente sfidato gli studiosi di genetica del comportamento, a citare almeno un caso in cui le loro scoperte siano state confermate in studi successivi (sullo stesso cervello).
Nonostante questo, la teoria genetica continua a essere propagandata, e i paladini dell’ADHD continuano a diagnosticare (e “curare” con potenti stimolanti anfetaminici) milioni di bambini. Una pseudoscienza, collegata alla psicologia razziale dell’era nazista, continua ad avvelenare i nostri figli.
Articolo originale di David Edward Walker - Indian Country: http://indiancountrytodaymedianetwork.com/2016/01/21/betrayal-labels-feebleminded-adhd-native-child-163122